Diana Milos su “Teatro e Aggressività”

 

L’aggressività: come nasce lo spettacolo

 

L’aggressività è un tema (apparentemente) difficile in quanto la ricerca teatrale è contatto, Relazione mentre invece la tematica vuole suscitare il divario…
Il “metodo” di lavoro impiegato è duplice: la ricerca attraverso il corpo di situazioni che richiamassero l’ argomento e la creazione di uno spazio riflessivo per tutti gli attori nel definire o riportare fatti che riguardassero l’aggressività… è abbastanza convergente l’idea di una connotazione invasiva, traumatica, lesionale sull’essere, sul corpo di un’aggressione in tutte le sue sfumature, fisica o psicologica che sia.


Senza proferire troppo una speculazione su quello che significa aggressività, se sta nel mondo interno o esterno, se è un “evento” o un “significato” soggettivo è importante comunque dire che l’aggressività dagli attori simbolizzata teatralmente e “oggettivamente” come, ad esempio, induzione di una frustrazione crea reazioni molto diverse a secondo della modalità esistenziale di ogni personaggio.
L’aggressività ci appare non come induzione di un divario, ma come altro modo d’ incontro dell’Altro, è essenzialmente Reazione, ineluttabile “richiamo all’appello”, urgente bisogno di Presenza, è dunque essenzialmente Relazione, perché determina costellazioni di nuove Relazioni. Se inizialmente l’aggressione era un distacco, un fastidio reiterato che limitava al massimo la libertà del gesto oppure creava una Relazione asimmetrica (c’è chi “subisce” e c’è chi “aggredisce”) adesso si rivela come possibilità d’incontro. In effetti, non si tratta di cercare elementi di distacco o scontro, ma basta “iniziare- come nota il regista -non dall’aggressione, ma da una relazione che già c’è” per poi articolarla in una scoperta di reazioni dell’Altro.

Non solo: spesso il Contatto, l’Avvicinamento lo si intende come “l’oggetto buono” che contiene e appaga. “L’oggetto cattivo” è quello che aggredisce, infastidisce, è frustrante. La logica e le intuizioni sul nostro lavoro invece – sempre più – sono impossibili da sganciare da un intrinseca polarità: il binomio aggressione-protezione, fuga-avvicinamento, distanza-attaccamento.

Ci si è avviati su questa strada nel ricercare non tanto l’aggressività o la bontà dell’“oggetto” teatrale, ma la “regolazione da contatto” sul confine fra accarezzare e aggredire… Ci sono non solo l’intuizione della polarità dei vissuti in ogni Relazione, ma c’è anche la cosciente ricerca sull’aggressività come la modalità di tirarla fuori, di ammetterla, come la corrispondente difficile impresa di dare costanza e intensità, voce e ritmo al corpo, potenza di sconvolgimento, svelamento…
In un’unica situazione il regista chiede ad un attore di rappresentare in scena un momento aggressivo e questo senza un interlocutore accanto; l’attore si rifiuta anche se bravo a rappresentare un personaggio aggressivo in presenza di un compagno… al di là del rifiuto -in assenza di una Relazione, la prima “aggressione” è essere “da soli” sul palco- forse nella tensione sollecitata in una situazione che richiama la rabbia ci si espone tanto, ci si mette in gioco, l’ aggressività diventa forse più una proiezione del proprio essere che una condivisione di responsabilità… Davanti a questa “provocazione”, di mettersi in gioco, uno dei personaggi inibisce al massimo la sua aggressività, un altro si compiace nel gioco aggressivo, un altro ancora cerca titubante il limite fra accarezzare e aggredire, come un bambino che non ha ancora “imparato” la distinzione fra il bene e il male in seguito al suo dispetto innocente …

Il punto dove si è arrivati mostra come l’ aggressività stessa non è mobilizzata da un bisogno di “scarica” – non è (solo) catarsi – ma dalla ricerca di una omeostasia, di un equilibrio nella Relazione fra “oggetto buono” e “oggetto cattivo” che cosi diventa principio creativo per tutti gli attori, disabili e non.
La difficoltà maggiore è capire alla fine… il potenziale creativo dell’aggressività; cioè che cosa fa Reagire l’Altro in modo Personale, “toccante”, dunque essenzialmente teatrale. Così, in alcune scene si cerca nella direzione della “nobile aggressività” cioè la provocazione. Provocazione come aggressività creativa -in quanto al servizio dell’amore per l’Altro, in virtù della curiosità verso i movimenti interni dell’Altro, cioè si cerca quella corrispondenza fra l ’intensità della tensione registica e il potenziale di risposta specifica del personaggio ad essa. E penso che questa sia la sensazione più acuta dopo il Laboratorio di teatro, non l’aggressività che si “andava” a cercare in modo valido, ma come superare l’impasse di essere esposto e di rendersi conto di esserlo.

Quelo che viene conservato è la libertà del “personaggio” che non è anarchia registica verso la naturalezza “selvaggia” del personaggio, verso la sua catarsi; se vogliamo dire che nell’arte&disabilità la maschera del “diverso” non può che rappresentare se stesso, svelato già all’esterno come Se stesso interiore, lasciamo però spazio di interlocuzione con questa fragilità, attraverso il prodigio di trasformazioni interiori manifestate sotto i nostri occhi.

Un’ ultima riflessione fuori dallo spazio dedicato al lavoro sul tema, preferisco lasciarla senza commento perché il lavoro “scientifico” teatrale ad hoc non è arrivato ancora alla fine e perché non ho un opinione chiara, però so che questo potrebbe essere un pensiero-tentante per quelli che associano disabilità (disagio) -aggressività (meccanismo compensatorio)
Un professore di Psicologia in un articolo sull’ arte&disabilità scriveva: “la maschera del dolore reale è attraversata dalla stessa voce che parla dal luogo profondo dell’ineffabile poesia attraverso la crosta e la smorfia delle stratificazioni della vergogna, dell’ostilità e dell’indifferenza” .(forse la mia opinione l’ ho già espressa sopra, “questo non è un processo catartico, ma omeostatico”)

Testo Diana Milos

Dott. in Psicologia Clinica Scienze dell’educazione e mediatrice culturale

Foto: Suzana Zlatkovic