Dimensioni che si confrontano:

Verità Istintiva, realtà e finzione

 

di Valentina Venturini

 

Assistendo ad una delle sedute di lavoro di Teatro Buffo, tornano alle mente le affermazioni di Goffredo Fofi a proposito del teatro in carcere che, a suo dire, “prende di più” perché quegli attori hanno una verità che gli altri non hanno. Questa affermazione la ritrovo qua, tra attori disabili e attori professionisti, alcuni dei quali abitano la scena con la coscienza di stare dentro una prova; altri, invece, sono là, anima e corpo, in tutta la loro verità. È quella, in quel momento, la loro realtà, anche se il regista gli ha detto ciò che devono fare, riprendere da quel punto, lavorare con il compagno o con un oggetto…

Davide Marzattinocci (regista e attore): Abbiamo scelto di creare un gruppo di lavoro formato da attori disabili e attori professionisti non per “fare teatro con i disabili”, ma, più semplicemente, “fare teatro”, senza distinzioni. Certo loro hanno una verità che l’attore, i registi e la pedagogia teatrale sta ancora cercando: quel momento unico in cui si è consapevoli di essere in una condizione altra. Lavorare con persone di questo tipo è un gran privilegio perché si parte da uno “stato di grazia”, ma, al contempo, è anche molto difficile sia perché molti di loro possiedono questo stato inconsapevolmente, sia perché si tratta di un livello difficilissimo da gestire, anche quando ne sono consapevoli. Faccio teatro anche per questo, per provare a creare una struttura che viva della loro verità senza tradirla.

Cos’è per voi il teatro?
Marzattinocci. È una scelta che nasce dalla mia formazione ma anche dall’esperienza della vita: se dovessi indicare i miei maestri, parlerei delle persone che ho incontrato e con le quali lavoro, in particolar modo quelle con l’inabilità, perché sono state e sono grandi maestri; maestra è anche la sofferenza, credo che tutto nasca dal desiderio di raggiungere qualcosa che non c’è stato e che si sfiora nella forma scenica. Nella sua leggerezza è insito questo elemento di gioco che spesso, però, nasconde la difficoltà di contatto come violenza più o meno implicita.
Simone Di Pascasio (attore). Nella vita mi piace star comodo. Il Teatro Buffo è l’unico posto in cui non stai e non devi star comodo. Devi stare sempre sveglio. È un luogo difficile che mi attrae è al contempo mi spaventa; ma è proprio questo conflitto che genera la vita che per noi abita la scena. Questo teatro non vuole distrarci o intrattenerci, ma darci fastidio, farci sentire che va contro la nostra natura. E così ci fa sentire vivi. È un teatro che ti dà la possibilità di capire quando non sei vero in scena. Quello che accade in quel momento è frutto di un equilibrio nel quale devi ascoltare e farti ascoltare dall’altro, porti e sei portato; quando non sei vero te ne accorgi e stai male perché senti che quello che fai, che dici e come lo dici è in dissintonia con i tuoi compagni e con te stesso. È faticosissimo. Il concetto è questo: stare lì, essere sinceri e crearsi continuamente un pungolo. È un luogo fortunato.
Giusi Nazzarro (attrice).
Tra le tante esperienze fatte, lavorare qui mi provoca ogni volta una crisi e quindi mi fa star bene. Non parlo di teatro e disabilità, ma di questo modo di fare teatro. Il fatto poi di lavorare con i disabili aumenta la difficoltà perché stando accanto a loro, in scena, ti senti finto, e devi sempre cercare il modo di essere il più vero possibile; se lo cerchi, però, non lo sei.
Lo scontro tra “verità innata”, o “istintiva”, e “verità costruita” genera una frizione.
Marzattinocci. Cerco proprio questa frizione perché crea un contatto reale tra le persone, a prescindere dalle loro abilità o disabilità. L’incontro, inteso come scambio di differenze, è il centro del nostro lavoro. Ci sono uomini e donne che si incontrano, spesso sono fuori dal tempo, dal luogo. Anche la costrizione di non avere scenografie, piani inclinati, tubi in ferro e simili costringe a partire dal corpo. E qui l’incontro di differenze è inevitabile. Le differenze ci sono, ma non sono quelle della normalità, sono quelle che nascono quando un corpo entra in un campo di forze, luogo in cui le differenze creano un potenziale di energia.
Quanto è importante il gruppo?
Marzattinocci. Molto, perché nel nostro processo di creazione artistica sono fondamentali il contatto e la conoscenza. Non credo in un teatro che dopo qualche incontro laboratoriale tira fuori uno spettacolo, un teatro in cui gli elementi cambiano con gli spettacoli. Teatro Buffo, che all’inizio non si chiamava così, nasce nel 2007 come un classico “laboratorio”, basato sull’incontro settimanale e sullo spettacolo finale, e non aveva altri obiettivi. Con il passar del tempo ci siamo resi conto che potevamo fare altro, orientare il lavoro come una compagnia. Il fatto di avere in organico anche attori disabili comporta dei problemi, non solo di carattere pratico. Primo fra tutti quello di fare in modo che il nostro lavoro venga valutato non perché ci sono persone con disabilità – e questo, purtroppo, ancora accade –, ma per la sua effettiva qualità.
Come nascono i vostri spettacoli?
Marzattinocci. È un rimbalzo tra gli attori e il regista. Solitamente partiamo da un tema. A guidare è il corpo. Avvantaggia il fatto che ci conosciamo, so che il lavoro di ognuno può essere rappresentativo di un tema specifico, come so che alcuni sono particolarmente sensibili a determinati temi, e così li propongo per far nascere, da questi, delle scene; alcune di quelle scene, a
loro volta, risulteranno efficaci rispetto al tema dello spettacolo e verranno inserite nella partitura scenica anche se in realtà l’attore che le ha create stava anche facendo “quello che sono”, ma non è detto che da “quello che è” lui poi non arrivi a comprendere (anche se in modo non razionale) che c’è un legame tra il tema e quello che fa. È un traguardo alto che crea unità: siamo qui e siamo consapevoli di quello che stiamo facendo. La mia ricerca, attraverso il nostro lavoro, è volta a sperimentare se siamo in grado di far sì che anche senza dircelo riusciamo a riconoscere (magari in modo irrazionale) il senso di quello che stiamo facendo. Quando non sono razionali né verbali, quali sono i canali di comprensione di una persona con disabilità? Quali usare perché qualcosa ritorni? Questo è il potere dell’arte.
Perché qualcosa ritorni.
Marzattinocci. Lo spettacolo deve essere un’unità in cui, anche se a diversi livelli, tutti sono consapevoli di ciò che fanno. Forse per qualcuno di loro è sufficiente che ci sia l’essenza del teatro: tu fai qualcosa e noi ti guardiamo; c’è un confine. A volte per alcuni è difficile stabilire il confine, sta allora a me capire quale sia. Se riesco a stabilire un confine di ritorno l’attore capisce non che “sta facendo teatro”, ma è in uno spazio altro, diverso. Come andare a messa e pregare: ognuno prega a modo suo, ma quello è il prete, questa la chiesa, questo il sacramento e questo il rito, non posso fare un’altra cosa, perché sono lì. Devo allora trovare il modo affinché chi non riesce a comprendere razionalmente che sta facendo teatro possa comunque provare una sensazione globale; capire che sta facendo una cosa diversa dal quotidiano della sua vita.

Qualche volta, da spettatori, ci si scontra con una sensazione di disagio; vieni, guardi e sei interessato ad osservare la differenza, e questo genera, immediatamente, un senso di colpa. A volte, però, ci si accorge che alcuni artisti lavorano proprio su questo interesse.

Marzattinocci. Esiste, purtroppo, questa forma di inganno che è anche verso il disabile che viene acclamato, ma in quanto disabile, e ci crede. Questa è la cosa più grave. E il pubblico, che prova
questo disagio, riesce ad accettarlo, senza trasformarlo. È una sofferenza immane. Ma io devo far soffrire per ciò che accade artisticamente in scena, non perché sto mostrando l’animale. E questo è molto difficile.

Come ti poni nei confronti del pubblico? Cosa vorresti arrivasse?

Marzattinocci. È un tema molto delicato. Ci sono diversi livelli. Il pubblico non è abituato a considerare il disabile in scena come un attore professionista. E questo per un pregiudizio innato, che appartiene a tutti. È lo stesso timore a cui, secondo Baudrillard, sfuggiamo attraverso la fantascienza e l’automa la cui “presenza” ci consente di marcare una distanza: accettiamo l’automa perché sappiamo che non si umanizza, perché se lo facesse vedremmo noi allo specchio e sarebbe la fine, cadremmo nell’oblio. Con la disabilità è lo stesso: non possiamo pensare che un disabile faccia teatro come gli altri, perché altrimenti dovremmo riconoscere che la nostra normalità, in qualche maniera, è annullata: sono come noi? e noi chi siamo? La tendenza è generale: no, a un certo punto basta, c’è un punto oltre il quale ti fanno capire che è meglio non andare, che ti devi fermare. E spesso questo lo fa anche chi lavora, a livello artistico, con la disabilità.

Cosa vorresti dare al tuo pubblico e ai tuoi attori?

perché lavoro con la disabilità. Vorrei che tutti si stesse nel qui e ora di quel momento. Che si creasse una comunità.

*Docente di Culture teatrali comparate e di problemi di storiografia dello spettacolo all’Università di Roma Tre.

Teatro Buffo, progetto di teatro integrato ideato da Suzana Zlatkovic, coinvolge le case famiglia Casablu e Casa Salvatore, attraverso la partecipazione di cinque abitanti delle case, due operatori e tre attori volontari. Il gruppo, diretto dal regista Davide Marzattinocci, è formato da Emilia Balbo, Roberto Cortellesi, Simone Di Pascasio, Elio Meloni, Patrizia Milanese, Giusi Nazzarro, Giuseppe Vomero. In repertorio La Festa, secondo capitolo di una trilogia iniziata con L’Attesa, cui seguirà L’Assenza.

 

 

Abstract
INSTINCTIVE TRUTH, REALITY, FICTION
Valentina Venturini, scholar at Roma Tre University,
interviews the director Davide Marzattinocci and actors Simone di Pascasio and Giusi Nazzarro of the Teatro Buffo Company, involved in an in-tegrate theatre project including not disabled and disabled actors together. The objective is to understand the dynamics submitted to scenic creation work of the actor in the relationship with the director, his or her partner, the performance object and the relation with the audience.
(Articolo da “Catarsi-Teatri delle diversità”, Anno XiX, numero 66/67, Agosto 2014).